2025, DUALTONE
E nel giorno di San Valentino, ritornano The Lumineers. Un duo folk rock americano che, in vent’anni di carriera, arriva al quinto album con questo Automatic.
Il disco arriva a tre anni di distanza dal precedente Brightside, e la band originaria di Ramsey (non Gordon, eheh), un sobborgo a sud di New York, lo proporrà dal vivo insieme a tutti gli altri precedenti successi in un’attesissima data italiana all’Unipol Forum di Milano, il prossimo 27 aprile 2025.
Il duo, formato dai due co-fondatori Wesley Schultz (voce e chitarra) e Jeremiah Fraites (batteria, pianoforte e percussioni), è legatissimo all’Italia.
Jeremiah vive infatti a Torino da tempo e ha sposato una donna di quella città.

Non ci sono particolari stravolgimenti sonori o tematici in questo disco, che i loro fan attendevano contando letteralmente i giorni prima della sua pubblicazione. La fanbase della band americana è davvero fedele al duo.
Le melodie delle canzoni possono sembrare scanzonate, ma i testi sono molto profondi, e spesso il black humour la fa da padrone.
Il disco è composto da undici tracce, che si aprono con l’attuale singolo Same Old Song e si chiudono con la finale So Long.
Wesley Schultz ha presentato Automatic con queste parole:
“Questo album segna vent’anni di scrittura di canzoni tra me e Jeremiah. L’album esplora alcune cose assurde del mondo moderno, come la linea sempre più sfumata tra le cose reali e quelle non reali e il modo in cui ci intorpidiamo cercando di combattere sia la noia sia l’eccessiva sovrastimolazione”.
Il singolo Same Old Song è un gradevole apripista dell’intero lavoro.
La batteria di Jeremiah è suonata come se si trattasse di una marcetta, e la voce molto evocativa di Wesley ci mette di buonumore.
Schultz alterna la sua voce narrativa a passaggi in falsetto, e la frase “What’s wrong with me?” ti rimane dentro, spingendoti a chiederti cosa fai ogni volta di sbagliato per ripetere sempre lo stesso errore e non essere accettato. Insomma, la “Stessa vecchia canzone”.
Il piano della successiva Asshole inizia a cullarti fino al ritornello di una canzone molto eterea, che man mano cresce di ritmo e ti fa battere le mani a tempo.
La band può contare due nomination ai Grammy Awards e una nomination agli American Music Awards.
Molto apprezzata anche sulle varie piattaforme di streaming musicale, è una band che si dimostra un’assoluta forza della natura in chiave live, con più di un milione e centomila biglietti venduti e performance in festival prestigiosi come Glastonbury, Bonnaroo e Fuji Rock.
Tornando al disco, dopo Asshole c’è un brevissimo interludio strumentale intitolato Strings, prima della struggente ballata piano e voce che dà il titolo all’album, vale a dire Automatic. Una canzone letteralmente da pelle d’oca, da ascoltare rigorosamente con le luci soffuse. Sa trasportarti per qualche minuto in un’altra dimensione.
Molto lenta e d’atmosfera è anche la successiva You’re All I’ve Got, forse leggermente più ritmata della precedente, con il solito passaggio di voce da tonalità basse a falsetti da parte di Schultz. Anche questa è una canzone che sa intrattenere bene.
Rispetto ai precedenti lavori della band, questo disco è certamente più composto, narrando storie e vicende personali.
Il duo folk americano prosegue il lavoro con altri due pezzi molto malinconici, Plasticine e Ativan, davvero curati sotto ogni punto di vista.
La seconda mi ha ricordato alcuni passaggi della struggentissima Stay (Faraway, So Close!) degli U2 e un’impostazione vocale tipica di Bono.
Canzone che, ad un certo punto, sembra nata apposta per essere illuminata dalle luci dei vari dispositivi durante un loro concerto.
Anche Keys on the Table è un pezzo molto intimista e narrativo, che rapisce completamente l’attenzione per quasi quattro minuti.
La successiva Better Day presenta un testo molto scanzonato e qualche cambio di ritmo, con il piano di Jeremiah che detta letteralmente il tempo della canzone.
Prima della malinconica ballad finale So Long, troviamo un altro splendido interludio strumentale intitolato Sunflowers, dominato dal pianoforte di Jeremiah e da parti orchestrali in sottofondo.
La sopracitata traccia finale, So Long, è secondo me il pezzo più bello dell’album.
Un piccolo gioiello, una gemma che splende fulgida in tanto piattume discografico, con un ritornello che sembra fatto apposta per essere urlato rabbiosamente a squarciagola.
Ogni piccolo aspetto è curato minuziosamente in questo splendido brano, in cui la voce di Wesley si limita quasi interamente a cantare con le sue splendide strofe, mentre il falsetto viene usato soltanto per pronunciare le due parole magiche: “So long”.
Un lavoro davvero ben riuscito, che probabilmente non sarà apprezzato da chi cerca solo ritmi incalzanti, ma questo è folk d’autore.
I fan italiani contano i giorni fino al prossimo 27 aprile, data italiana della band a Milano.
Mauro Brebbia
Tracklist:
- Same Old Song
- Asshole
- Strings
- Automatic
- You’re All I’ve Got
- Plasticine
- Ativan
- Keys on the Table
- Better Day
- Sunflowers
- So Long
Band:
- Wesley Schultz – voce e chitarra
- Jeremiah Fraites – pianoforte, batteria e percussioni
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